giovedì 9 dicembre 2010

Gli studenti lottano oggi come nel 68 ?

Tutti pronti per un nuovo '68 
La riforma Gelmini tra proteste e sostenitori. 

di Giorgio Triani
«Se avete dei problemi sessuali tuffatevi in piscina». Così il ministro dello sport francese  Missoffe nel discorso di inaugurazione di un impianto natatorio nell’università parigina di Nanterre.
Era il 1968: da lì a poco sarebbe esploso il movimento di contestazione. Grazie anche alla sottovalutazione mista a paternalismo nella quale a lungo indugiarono i poteri costituiti. Incapaci di farsi una ragione di una protesta ritenuta incomprensibile.
E che ora ritorna nei discorsi del ministro Gelmini e del premier Berlusconi che proprio non si spiegano come si possa avversare una riforma indispensabile e  accusano gli studenti di «fare il gioco dei baroni». Che invece vedono bene che sotto attacco c’è  il «diritto allo studio». E per questo hanno cominciato a issarsi sui tetti e a scalare i monumenti.

Più di vent'anni dopo la rivoluzione continua

Le condizioni per un replay del ’68 ci sono tutte. Pur con l’avvertenza che i corsi e ricorsi storici non si ripetono mai uguali.
Anzitutto perché se 40 anni fa la contestazione studentesca  scaturiva da  uno scontro  generalizzato (fra operai e padroni, fra donne e uomini, fra figli e padri) il presente è molto simile. Di nuovo c’è una società che in tutte le sue articolazioni non sta più assieme e che si trova anche nel mezzo di un epocale fine corsa.
O cambio di civiltà. E a pagarne le conseguenze sono soprattutto i giovani, che si trovano senza lavoro, senza futuro, essendo anche, perfino antropologicamente oltre che tecnologicamente, profondamente diversi dalle generazioni adulte.  Co.co.co e multitasking, con modello di vita Ikea  e ambizioni ridotte al lumino, sono infatti  sempre più degli estranei nella società della “Terza età”, che è televisiva e “pensionata”, però pervasa di giovanilismo.
Talvolta feroce. Da questo punto di vista il premier Berlusconi  è l’immagine ideale di un mondo  che i giovani non possono che avversare e provare a buttare per aria. Attendono solo l’occasione e questa sta arrivando. Visto che la protesta contro il ddl Gelimini sta generalizzandosi.

Tutte le questioni aperte dell'università italiana

Al  momento però, stando al tema dell’università, si devono evidenziare quattro ordini di questioni. Primo c’è assoluto accordo sul fatto che l’università italiana sia scassata come poche: forse la peggiore di tutti i Paesi avanzati, come testimoniano i vari ranking internazionali. Stupisce però che a ricordare ogni giorno sui principali media che c’è bisogno di meritocrazia, di liberare i concorsi da nepotismo e clientelismo e restituire competitività agli atenei  siano professori (ordinari) che stanno nell’università da 20/30 anni. E da altrettanti siedono nei senati accademici.
Ma in tutto questo tempo che hanno fatto, di che si sono occupati, in quali altre faccende erano affaccendati ? Secondo. Addossare tutte le colpe alla Gelmini  è ingeneroso e  inesatto. L’attuale ministro sta solo dando il colpo di grazia finale a una situazione che da tempo è marcia. In mano a rettori e pro rettori che non sono e non possono essere i manager efficienti, ancorché colti e sapienti, che servirebbero. Dal momento che il deficit non è solo economico. Ne è un esempio l’Università di Siena, che si di recente dichiarata «tecnicamente falllita».
Ma soprattutto di visione e di immaginazione, cioè di capacità di ripensare la propria missione e anche, forse, il  «modello di business».
Che ormai fa acqua da tutte le parti. E sta in piedi anche grazie ai tanti (troppi) professori (giovani e anziani) che insegnano per due lire o addirittura con incarichi gratuiti. Con la lusinga, gli uni,  che prima o poi entreranno e, gli altri, che dirsi “professori”, aiuta a farsi pagare nella professione privata  parcelle più elevate.
Bene:  se si ponesse fine a questa forma atipica di caporalato i danni sull’offerta didattica sarebbero forse maggiori  di quelli procurati quest’anno dai ricercatori, che per protesta hanno deciso di astenersi dalle lezioni. La terza questione riguarda  i tanti professori  che negli ultimi 20\30 anni sono entrati in ruolo con sanatorie,  concorsi ope legis e su misura.
Oppure che forti della loro “ordinarietà” da anni non fanno ricerca e non pubblicano più. Potendo così dedicarsi pienamente alla  professione extra moenia universitarie. Ma questo è noto, anche se non fa più notizia. Meno scontato invece è ricordare che gli studenti italiani pagano mediamente rette sotto i 1.000 euro all’anno. Ma che la loro protesta non è paragonabile a quella dei coetanei  inglesi, scesi in piazza contro il governo conservatore che vuole raddoppiare le tasse. Che però sono  già sui 3.000 euro. Dunque tre volte quelle che pagano gli universitari  italiani. É così che, pensando all’incredibile situazione delle borse di studio, dove rispetto al  100% degli aventi diritto solo il 10% la riceve, e alla teorica “autonomia” riconosciuta alle singole università  possiamo porci due domande.
Ma non avrebbe senso, con servizi migliorati e borse di studio effettive per i meritevoli , aumentare le rette? Magari lasciando libere le singole università di fissarle sulla base della propria offerta?  Queste due domande sono ovviamente retoriche, ma servono  per ribadire che parlare di riforma per l’università italiana è ormai del tutto inadeguato. Perché è da trent’anni che se ne parla. E dunque, anziché continuare a mettere pezze, si dovrebbe attivare la funzione di  reset . Cioè fare (quasi) tabula rasa dell’esistente e riprogrammare l’intero sistema.
Fonte-Lettera 43

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