mercoledì 19 gennaio 2011

Sandokan come Garibaldi

Emilio Salgari, lo scrittore che ha girato
il mondo stando seduto in poltrona

Quest'anno si ricorda il centenario della morte dello scrittore
veronese con una serie di iniziative di alto livello


   di Roberto Bertinetti
ROMA (12 gennaio) – Il 2011 si apre all’insegna delle celebrazioni salgariane. Cade, infatti, il centenario della morte dello scrittore e a Verona, la sua città natale, sono in calendario numerose iniziative. Si comincia il 28 gennaio: Paolo Ignacio Taibo II riceverà il premio “Ilcorsaronero” e, insieme a Pino Cacucci, presenterà il suo libro Ritornano le tigri della Malesia (Marco Tropea), pochi giorni dopo la Newton Compton proporrà in un unico volume, a cura di Sergio Campailla, Tutte le avventure di Sandokan mentre Einaudi annuncia per la prossima primavera Disegnare il vento di Ernesto Franco, un romanzo biografico sul narratore che al ritmo di tre nuovi testi all’anno fece sognare milioni di lettori tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, utilizzando un esotismo di maniera ma senza dubbio efficace.

Quanto a lui, come è ormai ampiamente noto, di viaggi ne fece uno solo, durato poche settimane: aveva da poco compiuto diciotto anni (era nato nel 1862) e a bordo del trabac­colo Italia Una ridiscese l’Adriatico da Venezia sino a Brin­disi. In seguito quella modestissima esperienza venne trasfi­gurata e riempita di atti eroici, di straordinarie avventure. Nelle pagine auto­biografiche e nelle interviste Salgari sostenne di essersi guada­gnato addirittura il comando della nave grazie alle sue doti di mari­naio. Mentre è pro­vato che sul trabaccolo fu solo ospite, e forse nep­pure tanto gradito.

«Io - precisò quando era all'apice della fama - ho provato emo­zioni non comuni e non comprensibili per chi sta comodamente seduto a ca­sa sua. Dopo aver navigato sulla topaia chiamata Italia Una ho viag­giato molto, arrivando sino allo stretto di Be­ring. Ho visto il mondo fumando una monta­gna di tabacco. In un viaggio stetti sei mesi in na­vigazione, con una sola breve fermata a Ceylon perché crivellato dai rosicanti».

In un periodo segnato dal grande interesse per le esplorazioni e le fantasie esotiche Salgari si guadagnò in fretta il consenso del pubbli­co . A mettere in dubbio la veridicità delle sue affermazioni fu soltanto Giuseppe Biasioli, giornalista del quotidiano veronese “L'Adige”, che nel 1885 pronunciò alcune frasi giudicate irriguar­dose e venne sfidato a duello. I due si affrontarono in un caldo pomeriggio di settembre in aperta campagna e Salgari ebbe la meglio, riuscendo a ferire l'avversario.

Le bugie vennero alla luce solo molti anni più tardi, quando lo scrit­tore era già morto. Si scoprì che le avventure erano tutte in­ventate a tavolino, frutto di lunghe ore trascorse leggendo le te­stimonianze di autentici viaggiatori o di fronte a carte geogra­fiche. «Anche Luigi Motta - rilevava Giovanni Arpino in una biogra­fia ap­parsa alcuni anni fa - ricorse allo stesso trucco. Ma nessuno come Emilio riuscì a essere così pervicace, coerente, autoplagiato nel personaggio del navigatore tempestoso, impavido scorritore di tutti gli oceani».

Salgari iniziò giovanissimo a costruirsi la propria privata leggen­da, quando era ancora lavorava al giornale veronese "L'Arena". Lo con­ferma un volume curato da Sil­vino Gonzato per Marsilio (Una tigre in redazione) nel quale sono raccolti ar­ticoli pubbli­cati tra il 1884 e il 1893. «Anche nella cronaca del piccolo evento – sottolinea Gonzato - Salgari si fa prendere la mano dal romanziere che sta ger­minando in lui». E infatti oltre a presentarsi al lavoro con in testa un turbante da ma­harajah fatto in casa - anni più tardi a Torino amava farsi sor­prendere dai visitatori in vesti da pirata, sguainando la sciabola - non perdeva occasione per ricordare ai lettori che i protagonisti degli spettacoli strani o esotici proposti a Verona gli erano ben noti, che nulla poteva essere sconosciuto a un uomo come lui che tanto aveva viaggiato in terre lontane.

«La corsa fatta per la città dai singalesi in otto landeaux - spiega - aveva destato nel pubblico la più viva curiosità, sicché quando mi re­cai all’anfiteatro trovai una folla straordinaria che si pigiava alle porte d'ingresso, specialmente in quelle dei primi e dei secondi posti. Una stecconata era stata costruita in mezzo alla pla­tea, terminata da due capannucce di tavole col tetto coperto di foglie di coccattiero uguali a quelle già da me vedute nelle foreste di Colombo».
Scorrendo il volume gli esempi si moltiplicano. Una canzone cantata da una danzatrice orientale «è la stessa che io avevo udito diverse volte verso sera, una sorta di lode a Buddha», in un artico­lo su sua madre chiama in causa «i baci ardenti che ella mi dava quando, uscito vivo dalle tempeste sul mare, dopo lunghi mesi di ansie, tornavo tra le sue braccia», a un ufficiale reduce dall'Africa chiede notizie del porto di Massaua, precisando «tre anni or sono, quando ci fui, aveva non troppa acqua».

Si trattava di semplici manie di grandezza? Non lo crede uno psi­chiatra che alcuni anni fa ha diagnosticato in Salgari un caso tipico di mitomania sfociata nella paranoia. Come definire, del re­sto, un uomo che giurava al proprio medico di essersi preso le febbri in India, che firmava le lettere alla fidanzata “il tuo selvaggio malese”, che quando accompagnava i figli a passeggiare in collina nei pressi di Torino li avvertiva di guardarsi dalle tigri nascoste dietro i cespugli.
Ma proprio facendo leva su simili fantasticherie, ha puntualizzato Claudio Magris, divenne un grande scrittore: «Egli è un piccolo, im­perfetto ma inconfondibile maestro nell’arte di fondare l'unità del mondo della parola. La narrativa salgariana è un’elementare intro­du­zione all’epica, la rappresentazione di un mondo integro e signi­ficativo in ogni particolare, è la continuità della vita e del racconto che la tra­manda, è la storia che non finisce mai».
In qualche circostanza, tuttavia, Salgari riuscì a mettere da parte il suo finto esotismo e misurarsi con altre tematiche. Accadde, ad esempio, in Le meraviglie del Duemila (in catalogo da Viglongo), un romanzo del 1907 nel quale, sulla scia di quanto fatto in Francia da Jules Verne, racconta il futuro di una umanità affascinata da nuovi mezzi di comunicazione e da continue scoperte tecnologiche.
Il libro merita di esser letto perché Salgari riesce a indovinare molte delle caratteristiche della società attuale e per l’intelligenza dimostrata nel disegnare uno scenario politico sulla soglia del terzo millennio segnato da una sorta di equilibrio del terrore tra le grandi potenze dopo l’uso della bomba atomica ( che lui chiama “silurite” ). «L'inventore di tante storie incredibili - ha commentato Giorgio Cal­cagno - narra la sua sola storia credibile senza rendersene conto: l’angoscia dell'uomo moderno che, dominato dalla tecnica, rischia di perdere se stesso».
La stessa angoscia - sia pure originata da motivi diversi - stava in­tanto distruggendo Salgari. E così mentre il pubblico di inizio Nove­cento divorava le avventure di Sandokan, il loro creatore lottava per uscire dal labirinto che lui stesso si era costruito intorno. Ma le con­dizioni economiche non gli consenti­rono la fuga: viveva di anticipi e doveva conti­nuare a scrivere. Sino a quando la routine delle ore passate a ta­volino non lo travolse e decise di suicidarsi. Era l’aprile del 1911, il suo corpo fu rin­venuto nei pressi di Torino, lacera­to da colpi di rasoio. Fino all’ultimo restò comunque fedele al perso­naggio che si era scelto: si diede infatti la morte “seguendo il ritua­le malese”, precisarono i cronisti raccon­tando il triste epilogo della sua vita.


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Fonte-Il Messaggero.it

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