Melozzo pittore di papi e di angeli (che piaceva a Mussolini)
di Marco Carminati Cronologia articolo16 gennaio 2011
Quando al governo c'era Lui, cioè il cavalier Benito Mussolini, il pittore Melozzo degli Ambrogi (1438-1494), noto ai più come Melozzo da Forlì, conobbe il suo primo, grande momento di gloria. Nel 1938 la città di Forlì aveva organizzato una mostra celebrativa posta sotto gli «auspici del Duce» e inaugurata nientemeno che da «Sua Maestà il Re Imperatore». Nessuna rassegna era riuscita fino ad allora a suscitare un così vasto interesse nelle alte gerarchie italiane: ministri, ufficiali, miliziani, arditi, avanguardisti e camicie nere si trasformarono di colpo in raffinati estimatori di un poco noto pittore del Quattrocento italiano.
C'è da chiedersi come mai. La risposta la troviamo nel titolo stesso di quella rassegna: «Mostra di Melozzo e del Quattrocento romagnolo». Eccellente dal punto di vista scientifico (la curarono Gnudi, Longhi e Ragghianti), l'esposizione del '38 non riuscì però a scansare il rombo della retorica che si manifestò nell'impostazione critica della rassegna, tutta volta a enfatizzare il ruolo locale e regionale del pittore. Invece di vedere in Melozzo uno dei protagonisti del Quattrocento nazionale, il pittore venne considerato una sorta di gigante del «genio romagnolo», forse anche per compiacere Mussolini che, come Melozzo, era nato in Romagna, non lontano da Forlì. La propaganda fascista – culminante nei cinegiornali dell'Istituto Luce dedicati alla visita del Duce alla mostra – finì col nuocere all'ignaro maestro, il quale, essendo stato trasformato dal regime in una sorta di romagnolo sanguigno, schietto e ardito, si vide costretto a subire nel dopoguerra un processo di "epurazione" accademica. Quasi nessuno, infatti, si prese la briga di studiare sul serio quel pittore un po' "fascista" almeno fino al principio degli anni Novanta, quando una monografia di Nicholas Clark e una piccola, raffinatissima mostra allestita a Forlì nel 1994 per il centenario della morte, riportarono il maestro nella sua giusta luce.
La mostra organizzata ora nei Musei Civici di San Domenico dalla Fondazione Cassa di Risparmi di Forlì sancisce definitivamente questa lunga operazione di recupero critico. E lo fa alla grande, non solo perché propone in mostra addirittura 14 delle 21 opere superstiti del mirabile artista, ma le dispone accanto a eccezionali capolavori di Mantegna, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Ghirlandaio, Botticelli, Antoniazzo Romano, Perugino, Signorelli e Raffaello Sanzio, per dimostrare il ruolo centrale rivestito dall'artista forlivese nella grande vicenda del Rinascimento italiano.
C'è da chiedersi come mai. La risposta la troviamo nel titolo stesso di quella rassegna: «Mostra di Melozzo e del Quattrocento romagnolo». Eccellente dal punto di vista scientifico (la curarono Gnudi, Longhi e Ragghianti), l'esposizione del '38 non riuscì però a scansare il rombo della retorica che si manifestò nell'impostazione critica della rassegna, tutta volta a enfatizzare il ruolo locale e regionale del pittore. Invece di vedere in Melozzo uno dei protagonisti del Quattrocento nazionale, il pittore venne considerato una sorta di gigante del «genio romagnolo», forse anche per compiacere Mussolini che, come Melozzo, era nato in Romagna, non lontano da Forlì. La propaganda fascista – culminante nei cinegiornali dell'Istituto Luce dedicati alla visita del Duce alla mostra – finì col nuocere all'ignaro maestro, il quale, essendo stato trasformato dal regime in una sorta di romagnolo sanguigno, schietto e ardito, si vide costretto a subire nel dopoguerra un processo di "epurazione" accademica. Quasi nessuno, infatti, si prese la briga di studiare sul serio quel pittore un po' "fascista" almeno fino al principio degli anni Novanta, quando una monografia di Nicholas Clark e una piccola, raffinatissima mostra allestita a Forlì nel 1994 per il centenario della morte, riportarono il maestro nella sua giusta luce.
La mostra organizzata ora nei Musei Civici di San Domenico dalla Fondazione Cassa di Risparmi di Forlì sancisce definitivamente questa lunga operazione di recupero critico. E lo fa alla grande, non solo perché propone in mostra addirittura 14 delle 21 opere superstiti del mirabile artista, ma le dispone accanto a eccezionali capolavori di Mantegna, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Ghirlandaio, Botticelli, Antoniazzo Romano, Perugino, Signorelli e Raffaello Sanzio, per dimostrare il ruolo centrale rivestito dall'artista forlivese nella grande vicenda del Rinascimento italiano.
el genio sottovalutato di Pintoricchio
In quarant'anni di attività pittorica riscosse il favore dei committenti e, al tempo stesso, il disprezzo dei colleghi artisti dietro al quale andavano a celarsCurata da Daniele Benati, Mauro Natale e Antonio Paolucci con il coordinamento di Gianfranco Brunelli, la rassegna segue un semplice filo conduttore: la biografia del maestro. Melozzo degli Ambrogi era nato a Forlì l'8 giugno 1438 da un famiglia di artisti-artigiani dediti all'architettura e all'oreficeria. Studiò pittura – un documento del 1461 lo definisce Melotius pictor – ma nulla sappiamo della sua formazione. Di certo fu attratto dalle novità: a Rimini potè studiare le architetture di Leon Battista Alberti e i dipinti di Piero della Francesca, a Padova potè mangiarsi con gli occhi le statue di Donatello al Santo e gli affreschi di Mantegna agli Eremitani. Ma è nella Urbino dei Montefeltro, accanto alle opere di Paolo Uccello, Piero, Berruguete, Giusto e degli intarsiatori dello Studiolo di Palazzo Ducale, che il pittore di Forlì plasmò il suo linguaggio. Giovanni Santi (il padre di Raffaello), ricordando l'esperienza urbinate di Melozzo, così scrisse nella Chronica Rimata: «Non lassando Melozzo a me si caro, che in prospettiva ha steso tanto il passo».
Melozzo si impadronì a pieno della prospettiva ma non gli bastò. Volle conquistare la grazia sublime, e per farlo studiò a fondo le opere di Piero e di Beato Angelico alla ricerca della misura perfetta e della bellezza oggettiva.
Con queste premesse Melozzo conquisterà Roma. Sul soglio di Pietro siede, in quel giro di anni, l'uomo giusto: è Sisto IV della Rovere, il papa che sta convocando artisti a frotte in Roma per compiere il suo grandioso progetto di renovatio urbis. Melozzo viene ingaggiato dai familiari del pontefice per un'impresa mozzafiato: il grandioso affresco dell'abside della chiesa dei Santi Apostoli, con l'ascensione di Cristo che avviene in un cielo azzurro terso tra angeli musicanti e sotto lo sguardo attonito degli Apostoli. Qui Melozzo giunge ai traguardi della bellezza pura lasciando stupefatti i contemporanei e le generazioni future (in particolare Raffaello Sanzio). Purtroppo, l'abside dei Santi Apostoli fu fatto a pezzi durante una ristrutturazione settecentesca e gli affreschi di Melozzo sono sopravvissuti solo in pochi frammenti, i più significativi dei quali sono presenti in mostra.
Ma papa Sisto vuole quest'artista divino tutto per se, e gli commissiona nel 1477 un'opera di eccezionale importanza: un affresco che commemori la nascita della Biblioteca Vaticana, illustrante il papa e la sua corte mentre ricevono l'umanista Bartolomeo Platina in veste di primo direttore dell'istituzione. L'affresco (oggi staccato) è uno delle opere di punta della mostra di Forlì, anche perché è la prima volta che lascia le mura del Vaticano.
Pienamente soddisfatto di questo articolato ritratto celebrativo, il pontefice della Rovere nominerà Melozzo suo pictor papalis e lo inserirà d'autorità nel giro dei pictores che stanno confluendo a Roma dalla Toscana e dall'Umbria (sono Ghirlandaio, Perugino, Botticelli, Signorelli, eccetera) per lavorare alla decorazione della Cappella Sistina.
Melozzo però non parteciperà all'impresa della Sistina. Per lui è in serbo un incarico diverso, ma altrettanto prestigioso: il vescovo di Recanati (che è un nipote del papa) lo chiama a Loreto per affrescare una delle sacrestie monumentali del grandioso santuario pontificio dedicato alla Santa Casa di Maria. Siamo tra il 1482-1484: ne sortisce di nuovo un capolavoro di sapienza prospettica e di bellezza ideale che, per ragioni misteriose, viene però lasciato incompiuto (in mostra si ammira la ricostruzione virtuale degli affreschi lauretani). Melozzo rientra a Forlì e accetta di decorare la cappella gentilizia dei Feo nella chiesa di San Biagio. È il suo ultimo capolavoro perché l'artista muore in città l'8 novembre del 1494. Gli affreschi della Cappella Feo dobbiamo oggi accontentarci di ammirarli in fotografia non per negligenza dei curatori ma per colpa degli "amici" di Mussolini: il 10 dicembre 1944 una bomba tedesca è andata a centrare in pieno quei dipinti di Melozzo trasformandoli letteralmente in polvere.
Fonte-Sole 24Ore
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