Emilio Salgari, lo scrittore che ha girato
il mondo stando seduto in poltrona
Quest'anno si ricorda il centenario della morte dello scrittore
veronese con una serie di iniziative di alto livello
di Roberto Bertinetti
ROMA (12 gennaio) – Il 2011 si apre all’insegna delle celebrazioni salgariane. Cade, infatti, il centenario della morte dello scrittore e a Verona, la sua città natale, sono in calendario numerose iniziative. Si comincia il 28 gennaio: Paolo Ignacio Taibo II riceverà il premio “Ilcorsaronero” e, insieme a Pino Cacucci, presenterà il suo libro Ritornano le tigri della Malesia (Marco Tropea), pochi giorni dopo la Newton Compton proporrà in un unico volume, a cura di Sergio Campailla, Tutte le avventure di Sandokan mentre Einaudi annuncia per la prossima primavera Disegnare il vento di Ernesto Franco, un romanzo biografico sul narratore che al ritmo di tre nuovi testi all’anno fece sognare milioni di lettori tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, utilizzando un esotismo di maniera ma senza dubbio efficace.
Quanto a lui, come è ormai ampiamente noto, di viaggi ne fece uno solo, durato poche settimane: aveva da poco compiuto diciotto anni (era nato nel 1862) e a bordo del trabaccolo Italia Una ridiscese l’Adriatico da Venezia sino a Brindisi. In seguito quella modestissima esperienza venne trasfigurata e riempita di atti eroici, di straordinarie avventure. Nelle pagine autobiografiche e nelle interviste Salgari sostenne di essersi guadagnato addirittura il comando della nave grazie alle sue doti di marinaio. Mentre è provato che sul trabaccolo fu solo ospite, e forse neppure tanto gradito.
«Io - precisò quando era all'apice della fama - ho provato emozioni non comuni e non comprensibili per chi sta comodamente seduto a casa sua. Dopo aver navigato sulla topaia chiamata Italia Una ho viaggiato molto, arrivando sino allo stretto di Bering. Ho visto il mondo fumando una montagna di tabacco. In un viaggio stetti sei mesi in navigazione, con una sola breve fermata a Ceylon perché crivellato dai rosicanti».
In un periodo segnato dal grande interesse per le esplorazioni e le fantasie esotiche Salgari si guadagnò in fretta il consenso del pubblico . A mettere in dubbio la veridicità delle sue affermazioni fu soltanto Giuseppe Biasioli, giornalista del quotidiano veronese “L'Adige”, che nel 1885 pronunciò alcune frasi giudicate irriguardose e venne sfidato a duello. I due si affrontarono in un caldo pomeriggio di settembre in aperta campagna e Salgari ebbe la meglio, riuscendo a ferire l'avversario.
Le bugie vennero alla luce solo molti anni più tardi, quando lo scrittore era già morto. Si scoprì che le avventure erano tutte inventate a tavolino, frutto di lunghe ore trascorse leggendo le testimonianze di autentici viaggiatori o di fronte a carte geografiche. «Anche Luigi Motta - rilevava Giovanni Arpino in una biografia apparsa alcuni anni fa - ricorse allo stesso trucco. Ma nessuno come Emilio riuscì a essere così pervicace, coerente, autoplagiato nel personaggio del navigatore tempestoso, impavido scorritore di tutti gli oceani».
Salgari iniziò giovanissimo a costruirsi la propria privata leggenda, quando era ancora lavorava al giornale veronese "L'Arena". Lo conferma un volume curato da Silvino Gonzato per Marsilio (Una tigre in redazione) nel quale sono raccolti articoli pubblicati tra il 1884 e il 1893. «Anche nella cronaca del piccolo evento – sottolinea Gonzato - Salgari si fa prendere la mano dal romanziere che sta germinando in lui». E infatti oltre a presentarsi al lavoro con in testa un turbante da maharajah fatto in casa - anni più tardi a Torino amava farsi sorprendere dai visitatori in vesti da pirata, sguainando la sciabola - non perdeva occasione per ricordare ai lettori che i protagonisti degli spettacoli strani o esotici proposti a Verona gli erano ben noti, che nulla poteva essere sconosciuto a un uomo come lui che tanto aveva viaggiato in terre lontane.
«La corsa fatta per la città dai singalesi in otto landeaux - spiega - aveva destato nel pubblico la più viva curiosità, sicché quando mi recai all’anfiteatro trovai una folla straordinaria che si pigiava alle porte d'ingresso, specialmente in quelle dei primi e dei secondi posti. Una stecconata era stata costruita in mezzo alla platea, terminata da due capannucce di tavole col tetto coperto di foglie di coccattiero uguali a quelle già da me vedute nelle foreste di Colombo».
Scorrendo il volume gli esempi si moltiplicano. Una canzone cantata da una danzatrice orientale «è la stessa che io avevo udito diverse volte verso sera, una sorta di lode a Buddha», in un articolo su sua madre chiama in causa «i baci ardenti che ella mi dava quando, uscito vivo dalle tempeste sul mare, dopo lunghi mesi di ansie, tornavo tra le sue braccia», a un ufficiale reduce dall'Africa chiede notizie del porto di Massaua, precisando «tre anni or sono, quando ci fui, aveva non troppa acqua».
Si trattava di semplici manie di grandezza? Non lo crede uno psichiatra che alcuni anni fa ha diagnosticato in Salgari un caso tipico di mitomania sfociata nella paranoia. Come definire, del resto, un uomo che giurava al proprio medico di essersi preso le febbri in India, che firmava le lettere alla fidanzata “il tuo selvaggio malese”, che quando accompagnava i figli a passeggiare in collina nei pressi di Torino li avvertiva di guardarsi dalle tigri nascoste dietro i cespugli.
Quanto a lui, come è ormai ampiamente noto, di viaggi ne fece uno solo, durato poche settimane: aveva da poco compiuto diciotto anni (era nato nel 1862) e a bordo del trabaccolo Italia Una ridiscese l’Adriatico da Venezia sino a Brindisi. In seguito quella modestissima esperienza venne trasfigurata e riempita di atti eroici, di straordinarie avventure. Nelle pagine autobiografiche e nelle interviste Salgari sostenne di essersi guadagnato addirittura il comando della nave grazie alle sue doti di marinaio. Mentre è provato che sul trabaccolo fu solo ospite, e forse neppure tanto gradito.
«Io - precisò quando era all'apice della fama - ho provato emozioni non comuni e non comprensibili per chi sta comodamente seduto a casa sua. Dopo aver navigato sulla topaia chiamata Italia Una ho viaggiato molto, arrivando sino allo stretto di Bering. Ho visto il mondo fumando una montagna di tabacco. In un viaggio stetti sei mesi in navigazione, con una sola breve fermata a Ceylon perché crivellato dai rosicanti».
In un periodo segnato dal grande interesse per le esplorazioni e le fantasie esotiche Salgari si guadagnò in fretta il consenso del pubblico . A mettere in dubbio la veridicità delle sue affermazioni fu soltanto Giuseppe Biasioli, giornalista del quotidiano veronese “L'Adige”, che nel 1885 pronunciò alcune frasi giudicate irriguardose e venne sfidato a duello. I due si affrontarono in un caldo pomeriggio di settembre in aperta campagna e Salgari ebbe la meglio, riuscendo a ferire l'avversario.
Le bugie vennero alla luce solo molti anni più tardi, quando lo scrittore era già morto. Si scoprì che le avventure erano tutte inventate a tavolino, frutto di lunghe ore trascorse leggendo le testimonianze di autentici viaggiatori o di fronte a carte geografiche. «Anche Luigi Motta - rilevava Giovanni Arpino in una biografia apparsa alcuni anni fa - ricorse allo stesso trucco. Ma nessuno come Emilio riuscì a essere così pervicace, coerente, autoplagiato nel personaggio del navigatore tempestoso, impavido scorritore di tutti gli oceani».
Salgari iniziò giovanissimo a costruirsi la propria privata leggenda, quando era ancora lavorava al giornale veronese "L'Arena". Lo conferma un volume curato da Silvino Gonzato per Marsilio (Una tigre in redazione) nel quale sono raccolti articoli pubblicati tra il 1884 e il 1893. «Anche nella cronaca del piccolo evento – sottolinea Gonzato - Salgari si fa prendere la mano dal romanziere che sta germinando in lui». E infatti oltre a presentarsi al lavoro con in testa un turbante da maharajah fatto in casa - anni più tardi a Torino amava farsi sorprendere dai visitatori in vesti da pirata, sguainando la sciabola - non perdeva occasione per ricordare ai lettori che i protagonisti degli spettacoli strani o esotici proposti a Verona gli erano ben noti, che nulla poteva essere sconosciuto a un uomo come lui che tanto aveva viaggiato in terre lontane.
«La corsa fatta per la città dai singalesi in otto landeaux - spiega - aveva destato nel pubblico la più viva curiosità, sicché quando mi recai all’anfiteatro trovai una folla straordinaria che si pigiava alle porte d'ingresso, specialmente in quelle dei primi e dei secondi posti. Una stecconata era stata costruita in mezzo alla platea, terminata da due capannucce di tavole col tetto coperto di foglie di coccattiero uguali a quelle già da me vedute nelle foreste di Colombo».
Scorrendo il volume gli esempi si moltiplicano. Una canzone cantata da una danzatrice orientale «è la stessa che io avevo udito diverse volte verso sera, una sorta di lode a Buddha», in un articolo su sua madre chiama in causa «i baci ardenti che ella mi dava quando, uscito vivo dalle tempeste sul mare, dopo lunghi mesi di ansie, tornavo tra le sue braccia», a un ufficiale reduce dall'Africa chiede notizie del porto di Massaua, precisando «tre anni or sono, quando ci fui, aveva non troppa acqua».
Si trattava di semplici manie di grandezza? Non lo crede uno psichiatra che alcuni anni fa ha diagnosticato in Salgari un caso tipico di mitomania sfociata nella paranoia. Come definire, del resto, un uomo che giurava al proprio medico di essersi preso le febbri in India, che firmava le lettere alla fidanzata “il tuo selvaggio malese”, che quando accompagnava i figli a passeggiare in collina nei pressi di Torino li avvertiva di guardarsi dalle tigri nascoste dietro i cespugli.
Ma proprio facendo leva su simili fantasticherie, ha puntualizzato Claudio Magris, divenne un grande scrittore: «Egli è un piccolo, imperfetto ma inconfondibile maestro nell’arte di fondare l'unità del mondo della parola. La narrativa salgariana è un’elementare introduzione all’epica, la rappresentazione di un mondo integro e significativo in ogni particolare, è la continuità della vita e del racconto che la tramanda, è la storia che non finisce mai».
In qualche circostanza, tuttavia, Salgari riuscì a mettere da parte il suo finto esotismo e misurarsi con altre tematiche. Accadde, ad esempio, in Le meraviglie del Duemila (in catalogo da Viglongo), un romanzo del 1907 nel quale, sulla scia di quanto fatto in Francia da Jules Verne, racconta il futuro di una umanità affascinata da nuovi mezzi di comunicazione e da continue scoperte tecnologiche.
Il libro merita di esser letto perché Salgari riesce a indovinare molte delle caratteristiche della società attuale e per l’intelligenza dimostrata nel disegnare uno scenario politico sulla soglia del terzo millennio segnato da una sorta di equilibrio del terrore tra le grandi potenze dopo l’uso della bomba atomica ( che lui chiama “silurite” ). «L'inventore di tante storie incredibili - ha commentato Giorgio Calcagno - narra la sua sola storia credibile senza rendersene conto: l’angoscia dell'uomo moderno che, dominato dalla tecnica, rischia di perdere se stesso».
La stessa angoscia - sia pure originata da motivi diversi - stava intanto distruggendo Salgari. E così mentre il pubblico di inizio Novecento divorava le avventure di Sandokan, il loro creatore lottava per uscire dal labirinto che lui stesso si era costruito intorno. Ma le condizioni economiche non gli consentirono la fuga: viveva di anticipi e doveva continuare a scrivere. Sino a quando la routine delle ore passate a tavolino non lo travolse e decise di suicidarsi. Era l’aprile del 1911, il suo corpo fu rinvenuto nei pressi di Torino, lacerato da colpi di rasoio. Fino all’ultimo restò comunque fedele al personaggio che si era scelto: si diede infatti la morte “seguendo il rituale malese”, precisarono i cronisti raccontando il triste epilogo della sua vita.
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Fonte-Il Messaggero.it
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